Di
seguito la trascrizione del quarto incontro della conferenza concernente “Lo
sguardo della sofferenza” svoltasi a Brescia, presso l'Accademia del Redentore, nel 2011. Relatore: Padre Giuseppe Barzaghi, O.P. E' un tema un
po’ diverso dagli altri post (non completamente secondo me). Cercherò di trascrivere anche le altre.
Luigi
Oggi
trattiamo il tema della “via della sofferenza”.
La
sofferenza è metodo; “metodo” vuol dire via. Non vuol dire stare a guardare la
sofferenza. Si tratta di un modo per capire, per intendere, un modo attraverso
il quale noi entriamo nella profondità del sapere, perché un conto è capire e uno
è sapere: quanto a capire, capiamo niente; quanto a sapere, sappiamo molto ma
non dipende da noi. Il capire dipende da noi e, proprio per questo, è un
tentativo di carpire, agguantare, afferrare qualcosa; il sapere non dipende da
noi, per fortuna, perché il sapere (cioè “gustare un sapore”), dipende,
appunto, dal sapore: il gusto è in una condizione di passività; nel capire e
nel comprendere siamo attivi, nel sapere siamo passivi. Se nel capire siamo
attivi, la nostra attività è finita e il nostro capire è finito. Nel sapere
siamo passivi, la nostra passività è infinità: possiamo subire tutto, possiamo
soffrire tutto.
Nel
subire e nel soffrire, la nostra passività può esser istruita infinitamente. Il
sapere è la condizione nella quale noi veniamo istruiti: per sapere qualcosa
non è necessario avere abilità esplicativa di questo qualcosa; se uno gusta un
buon sapore, primo è contento perché sta gustando un buon sapore; secondo, è
possibile che sia interessato a sapere come sia stato confezionato, preparato,
etc.; quando tenta di capire, però, è in una posizione attiva. Il sapere vuol
dire “gustare”; il comprendere vuol dire “spiegare”. La seconda attività è
finita perché dipende da noi; nel gustare, invece, siamo passivi, dobbiamo
arrenderci, non dobbiamo fare nulla.
Il
metodo o la via della sofferenza è questo: la via che ci istruisce nel subire e
nel sentirci assolutamente passivi. È il modo più istruttivo di tutti. Noi
molte volte usiamo: “ho capito” ma in realtà abbiamo gustato, assaporato.
Un
esempio autobiografico: viene mia nonna ad una conferenza. Alla fine la saluto.
Lei mi fa: “non ho capito niente ma è
stata bella”. Mi ha rincuorato! È stata sincera. Quindi: “non ho capito”,
“non ho afferrato” ma “sono stata
afferrata”. Conta afferrare o essere afferrati? Essere afferrati. Perché?
Perché per afferrare a nostra volta, prima dobbiamo essere presi. Quando uno si
applica nello studio di qualcosa, prima di studiare, gli interessa o no? Mai
visto uno che si mette a studiare una cosa che non gli interessa. “Studiare”
vuol dire “prendere”; “interesse” equivale ad “essere presi”. Io voglio
catturare ciò da cui sono catturato, ciò da cui mi sento preso.
L’intero
è uno: non ha falle, non ha mancanze. Nella teoria dell’intero, quello che
prendiamo dall’esperienza e lo usiamo come analogia per significare ciò che più
eccellente è nell’intero, dal punto di vista dell’intero, vale al contrario. Ho
detto: “è un meccanismo naturale” il prendere qualcosa perché il suo interesse ci
ha precedentemente catturati. Guardate che questa struttura è originaria,
quindi si affaccia nella situazione di eccellenza che, come tale, è la
situazione divina: esiste, nella situazione divina, non precisamente questo,
che fungerebbe come esempio, ma qualcosa che ci dice da cosa dipende tutto ciò.
San
Paolo, in Fil 3, 12 (Lettera ai Filippesi, Capitolo 3, versetto 12), dice: “Anch’io mi protendo nella corsa per
raggiungerlo e afferrarlo; io, che sono stato afferrato da Cristo”. Non
dice “Si salva chi raggiunge Cristo”. Cristo dice: “Io vengo velocemente”. Chi è capace di prenderlo? San Paolo: è
vero che noi ci protendiamo nella corsa per afferrare Cristo ma perché siamo
stati precedentemente afferrati. Così, nell’itinerario conclusivo del nostro
destino di conoscenza è sempre San Paolo, Prima Lettera ai Corinzi, dopo avere
trattato della carità, a dirci che il nostro destino è arrivare a conoscere noi
stessi così come siamo conosciuti: “cognoscam sicut et
cognitus sum” (mi conoscerò finalmente come sono
conosciuto, 1 Cor 13, 12). La via della sofferenza è il metodo della passività.
Il
nostro guaio è che noi, quando pensiamo alla passività, la realizziamo in un modo
aristotelicamente deteriore. Non ho detto che l’aristotelismo è deteriore,
attenzione; “aristotelicamente deteriore”, siamo capaci di deteriorare il
povero Aristotele. Tu non hai letto neanche una riga di Aristotele! Egli parla
della passività in modo eccellente. A Milano, ad esempio, c’è il primato
dell’attivismo. “Chi può il più può il
meno”. Bisogna cercare il forte che solleva 100 kg, se gli chiedi di
sollevarne 20: “tutto qui”? L’attivo supera il passivo. Questo è Aristotele?
Fino
a un certo punto. C’è anche, in Aristotele, il rovescio della medaglia: è vero
che chi può il più può il meno ma è anche vero che chi può il meno può il più.
Esiste un caso del genere. Ma come è possibile? Esistono potenze e facoltà che
sono assolutamente passive. Se prendo la vista, questa è passiva: subisce
l’impressione del colore e delle figure ma nella vista funziona il principio
diametralmente opposto a quello enunciato prima: qui è vero il contrario. “Chi può il meno può il più”. Puoi
leggere il bugiardino delle medicine? Sì? Se sei capace di leggere letterine
minuscole, quando passi per strada e, a lettere cubitali, c’è scritto sopra un
negozio: “Macelleria”, riesci a
leggerlo o no? Certamente. Nell’ordine della vista, chi può il meno può il più.
Il
subire (“Stare sotto”), il soffrire è un metodo di eccellenza. Ribalta il
principio della forza assoluta. E allora cosa bisogna fare? Nulla!
Accorgercene: ci accorgiamo del buon sapore. “Dai, adesso spiegami come è
fatto!”. Non mi interessa. Gustare, gradire, implicano sforzi? No. Gradire Un Sapore Trovandolo Ottimo: G U
S T O.
Però
bisogna essere passivi, arrendersi al contenuto che ci afferra. Quindi esiste
questo metodo della sofferenza: qui noi siamo istruiti, qui si impara tutto.
Non comprendiamo niente ma sappiamo tutto. Si assapora tutto in questa
passività. Per avere questo ingresso, occorre il minimo: l’attenzione, la
capacità di far sì che possiamo accorgerci di qualcosa. Quando si è troppo
presi dalla attività, non possiamo accorgerci di niente. Passiamo dalle strade
fatte centinaia di volte, un giorno ti prende lo “struscio” (dal napoletano:
passeggiata per la via principale di un paese nelle ore serali o festive, NdR).
Ma guarda quel terrazzo! Non me ne sono mai accorto. Vuol dire che non l’abbiamo
mai cercato. È come se lo sguardo fosse stato trascinato lì. L’accorgerci è la
condizione con la quale noi siamo introdotti nell’assaporare le cose, nella
sapienza, nel gusto. È il minimo
indispensabile che ottiene il massimo usufruibile.
Questa
è una via del cuore: non pensiate che il cuore sia una cosa, la ragione
un’altra, quindi le ragioni del cuore, le ragioni della mente, etc. Momento. Il
cuore è l’aspetto di sapienza, di maggiore intensità col quale noi intendiamo
tutto: nella commozione la suprema gioia e la suprema tragicità di una
esperienza coincidono. E, in questa dimensione della commozione, bisogna
pensare che il cuore sia la facoltà per eccellenza. L’avete provata? Quando uno
sente che ci sono casi che ti strappano via il cuore, senti che stai facendo
una cosa buona perché ti scoppia il cuore; quella situazione, quando vedi la povertà,
il bisogno, senti il cuore che ti tira dentro. Questo è il massimo del sapere.
Questa si chiama “Ragione del Cuore”. E il resto? Non interessa.
Però
non funziona più come il Sillogismo: questo, infatti, è il tentativo di
comprensione e di spiegazione; ma uno comprende e spiega ciò da cui è preso. E
come fa a lasciarsi prendere? Non dalla ragione sillogistica ma dalla ragione
del cuore. In questo modo noi entriamo nel metodo della sofferenza, nel luogo
della sapienza.
Però,
capite, per sopportare bisogna avere appigli, appoggi, qualcosa sopra il quale
tutto regge; ma senza sforzo, altrimenti saremmo attivi.
Siamo
in piscina. Anzi, al mare. Nuotiamo. Eh, parolona… voglio vederti a fare il
delfino io! “Ma no, guarda, mi accontento di galleggiare”. Si fa presto a dire
“galleggiare”. Eh, no. Per galleggiare bisogna sapere galleggiare. Il sughero galleggia, sì; ma non si muove, è
passivo. Esiste una forma di nuoto a tal punto radicale da essere tanto passiva
quanto il galleggiamento del sughero ed è il vero galleggiare: fare il morto. È mica facile eh.
Andavamo al mare, io e mio padre. La prima cosa che lui faceva dopo il tuffo,
si girava e stava lì, a mo’ di morto. Provo anche io: andavo sotto col sedere.
Chissà perché, quando devi stare a galla, inconsapevolmente non riesci a
tirarti su. Ho provato con un mio compagno di noviziato. Gli ho detto: “fai la
capriola e vai giù”. Niente, non riusciva, stava fuori col sedere. Dobbiamo
arrenderci! Bisogna essere passivi! Come il morto!
Guardate
come l’intero, nella sua struttura divina, ci cattura anche lì. Come si fa il
morto? Mettendoci a forma di Croce. E perché ci mettiamo a forma di Croce?
Perché quella lì, nella struttura originaria, è il senso della morte. La morte
di tutte le morti è quella di Cristo, in croce.
Tertulliano,
il grande Padre della Chiesa, diceva: “tutto
l’universo prega”. Anche l’animale bruto alza il muso verso il cielo e
muggisce ma in modo inesprimibile. Perché, noi siamo capaci di esprimerci nella
preghiera? Sta scritto: “Nemmeno sappiamo cosa sia conveniente domandare”. Muti
anche noi. E gli uccelli, appena si alzano in volo, aprono le ali a forma di
croce.
Beccato!
Questa è la struttura originaria. Bisogna entrare nelle Ragioni del Cuore, non
attraverso un sillogismo, perché non c’è niente da spiegare: è la struttura che
si affaccia, in mille modi, in tutti i casi possibili dell’universo creato.
Questo si dice “cosmo” proprio perché non è una molteplicità disparata ma
perché tende all’Uno. Universo: va verso l’Uno; e questo si affaccia in tutto.
Questo Uno attrae, prende. Ciascuno dei molteplici, essendo preso da quell’Uno,
cerca di prenderlo, volendo capire, ne fa gli esempi. Alla fine si accorge che,
in tutta questa sua corsa, è stato preso prima lui: va tutto capovolto. La
ragione che vince è la Ragione del Cuore.
Rimane
il fatto che noi ci troviamo di fronte, non all’esempio di uno che galleggia,
ma a qualche cosa che entra nel cosmo ma il cosmo sembra rifiutarla. La
spazzatura è accettata dal cosmo? Cosmo –
cosmesi - cosmetica. Una donna va in cosmesi per farsi bella o brutta? Non
è che entra dentro bella e viene fuori come la spazzatura: la cosmesi rifiuta
la spazzatura. E il cosmo, legato alla cosmesi, cioè all’ordine bello, può accettare la spazzatura? No,
è contrario alla sua natura! Il cosmo rifiuta la spazzatura. Questo è il
discorso di coloro che cercano di dimostrare l’esistenza di Dio a partire dalla
bellezza delle cose. “Guarda, le cose sono molto belle, è impossibile che il mondo
sia casuale, ci deve essere minimo un’intelligenza ordinatrice per giustificare
la bellezza delle cose”. Ad esempio, un fiore: guarda quanto è bello. E quando
un fiore marcisce, diventa rifiuto? Davvero? Allora, se è così, o Dio è morto o
Dio è cattivo. Finché il fiore è bello dici: “Dio è buono, è somma
intelligenza”; quando marcisce dovrebbe essere morto o birichino. Praticamente,
Dio non c’è. Il cosmo si darà da fare per allontanare il proprio rifiuto ma
questo c’è e pretende il proprio diritto,
anche lui è un cosmopolita; l’imperfezione, il difetto, quello che chiami
“rifiuto”.
Allora
bisognerà rivedere l’idea che noi abbiamo del bello e della cosmicità del
mondo. Se non rivediamo correttamente idea della cosmicità, va a finire che ci facciamo idea della comicità del mondo. Facciamo figura dei
comici quando parliamo del mondo. Bisogna rivedere questa idea di cosmo perché
il rifiuto c’è ed è cosmopolita. Vediamo quali sono i canoni della bellezza,
secondo i classici:
- Integrità (integritas);
- Debita proporzione (debita proportio
sive consonantia);
- Chiarezza (claritas).
“Guarda che bella
questa scrivania!”. Ma gli manca una gamba? E allora, come
può essere bella? “Quest’altra invece ha tutte e quattro le gambe”. Bellissima.
Ma dondola: non è proporzionata. Il bene è tale perché si presenta nella sua
integrità. “Bonum ex integra causa: malum ex quocumque
defectu”: il bene
è tale perché si presenta nella sua integrità ma
qualsiasi minimo difetto, anche un difettuccio, compromette il bene stesso. Noi
pensiamo che il cosmo sia completamente integro, debitamente proporzionato,
quindi armonioso e noi lo possiamo contemplare. Quando nel cosmo si affaccia il
rifiuto, si tratta di qualcosa di disintegrato o che tenta di disintegrare
oppure di qualcosa che è sgraziato perché toglie l’armonia: nel cosmo quante
cose sono fatte così, ti impediscono di dire “che bello!”. Ma quelli che chiamiamo
“rifiuti” sono sempre dentro l’ordine.
E
avremo sempre l’obiezione: “allora Dio è morto o non è buono!”. Perché quando
diciamo che “il primo criterio della bellezza è l’integrità” (e dobbiamo
rispettarlo) cosa vuol dire? “Integro”: non manca di nulla. Noi, a Bologna,
mica siamo tutti alti uguali: c’è lo spilungone, c’è quello medio. Il mio
direttore spirituale era il più piccolo di tutti: un cesellatore di anime nel
confessionale. Se gli capitavi quando aveva perso il Bologna, ti mangiava. Ma se
entrava nel Confessionale, il suo habitat… un cesellatore. Era direttore della
basilica, Sapeva come manovrare tutti gli attrezzi, comprese le seggiole del
presbiterio (anche la sua). Ma se la seggiola fosse pari a quella delle altre,
tutti saremmo seduti allo stesso modo, tranne uno. Allora cosa fa? Taglia di
due o tre centimetri la sua seggiola. Finché la usava lui ok. Ma quando
concelebravamo, c’era il cerimoniere: arrivati tutti, ci si sedeva. Se troviamo
una cosa scompensata, immediatamente la cosa diventa inutile. Buttiamola via.
“Cosa
sono quelle scarpe vecchie? Eh, che roba, butta via! Un po’ di repulisti”. Qui deve essere tutto
ordinato. Ma tu sei proprio un seguace del criterio della integritas? Quello che tu chiami “rifiuto”, se c’è, avrà le sue
cause? Lo chiami come ciò che è disintegrato, disarmonioso, non perché gli
manca qualcosa, ma forse manca qualcosa a te per poterlo vedere integrato.
Bisogna guardare le cose nella loro integrità.
“Queste scarpe hanno
fatto la guerra. Me le ha portate Fra Galdino”.
E
cosa faceva?
“Era un fratello
cooperatore, riusciva a fare anche 80 km”.
Dopo
come è finito?
“Mah, non l’hanno più
trovato, hanno fatto una retata”.
E
tu di un uomo così prendi le scarpe e le butti via? Toccale bene, sono una
reliquia, non un rifiuto! Quando tu vai in un santuario, baci il rifiuto o baci
la reliquia? Oh, si chiama così. Addirittura, si trovano in teche di vetro. E
le scarpe? Sono sempre quelle. Ma basta un po’ di attenzione e ti accorgi che
non c’è niente, nel cosmo, che non sia cosmetico. A lui non manca niente;
mancava qualcosa a te.
Da
completare con l’istinto spirituale di attrattiva verso l’Uno: da rifiuto
diventa reliquia. Ma se non sei attento, se non sei attratto, non lo vedi. Questa
attrattiva appartiene alla passività, alla sofferenza. Quando siamo strappati
nel cuore si sente tutto; si assapora tutto, si diventa dei poeti. Bisogna
imparare dai poeti perché essi hanno sguardo reliquiario: fanno vedere l’invisibile
attraverso il visibile.
C’è
un bellissimo testo del Pascoli: il Myricae. Sapete cosa sono le Myricae?
Ricordate:
“Sicelides
Musae, paulo maiora canamus! Non omnis
arbusta iuvant humilesque myricae si canimus silvas,
silvae sint consule digae” (“O muse
siciliane, cantiamo cose un po' più alte!
Non a tutti giovano gli albereti le umili tamerici; se cantiamo le selve, le
selve siano degne del console”).
È
l’Egloga IV di Virgilio, quella che era stata interpretata, dalla cristianità,
come una profezia pagana del Cristo.
Nel
Myricaes di Pascoli c’è una dedica al padre defunto e una chiusa che è
bellissima, perché paragona la morte alla chiusura degli occhi: “quando gli occhi si chiudono e ripongono come
in uno scrigno la visione, per sempre”. “Per sempre”. Questa è la
poeticità: ti porta via. Dà il senso poetico alle metafore usate
precedentemente. Il poeta compie questa strana acrobazia che non è pilotata attivamente,
ma si sente attratta passivamente da quel punto centrale o focale dentro il
quale si rifugiano come attraverso tanti raggi tutte le cose. E lì dentro c’è il
senso del cosmo ma, al di fuori di quello, tutto, spaiato, è sempre rifiuto.
All’interno di quello anche ciò che chiamiamo “rifiuto” è “reliquia”, nobile.
Voi
conoscete Georges Bernanos? È gustosissimo. Ma bisogna stare attenti. Ha
scritto “I dialoghi delle Carmelitane”,
testo teatrale bellissimo, ispirato da uno scritto di Gertrude Von le Fort, (“L’ultima
al patibolo”, 1931), è la storia di queste diciotto carmelitane ghigliottinate
durante la Rivoluzione Francese. Erano sedici, perché una è stata condannata in
contumacia: il cappellano, quando lei volle immolarsi con le altre, le disse di
continuare a vivere: “il tuo martirio è
questo”. E poi c’era l’ultima, Suor Bianca dell’Agonìa di Gesù. È
bellissimo il testo di Bernanos perché? Perché va letto poeticamente, non poematicamente:
devi andare a vedere dove si nasconde il frammento. Questi dialoghi, se li leggi
come fossero un’istruzione al sacrificio, all’immolazione, al coraggio non
dicono molto; se li leggi al contrario, dal verso di chi si riteneva coraggioso
e muore in un modo straziante, come se non avesse più la Fede, dice tutto, è bellissimo
(c’è stato anche un film nel 1959 tra l’altro, molto bello anche questo). Il
dialogo tra lei e la priora, all’inizio, è come un’istruzione sul coraggio che
si deve avere. “Non si deve soffocare la
natura ma si deve vincerla”; in realtà è una cosa che col Cristianesimo ha
poco a che fare, più vicina allo stoicismo forse. La cosa che più è nascosta,
ma se uno ha lo sguardo poetico la prende subito, la si trova in un’espressione
brevissima. La priora è malata e, dopo avere istruito Bianca, che vuole
prendere come nome “dell’Agonia di Gesù”, rimane un po’ perplessa, e spiega
alla sottopriora il suo tentennamento: perché ella stessa, al momento di
entrare nel Carmelo, aveva scelto questo nome ma, al tempo, non le era stato
dato. E quando, sul letto di morte, la chiama, affidando la novizia alla
sottopriora e dà come ultimo suo ordine che si accetti “Suor Bianca dell’Agonia
di Gesù”afferma:
“se fossi stata ai
tempi della mia salute, ti avrei dato la mia vita; adesso non posso darti che
la mia povera morte”.
Finita
la scena, c’è disperazione e inizia l’agonìa: non vede più niente, muore in
modo disperato e sconsolato, sembra un personaggio negativo; il problema è alla
fine, perché sedici vanno al patibolo, due n: la sottopriora, Maria
dell’Incarnazione e Suor Bianca, che era scappata. Ma quando si accorge che
vengono portate col carro alla ghigliottina, lei si avvicina, mentre le altre
cantano il “Veni Creator Spiritus”; via via le voci vengono meno naturalmente; quando
c’è ormai rimasta una sola voce, ad un certo punto si sente una voce tra la
folla: Suor Bianca si avvicina alla ghigliottina ed è l’ultima a salire al
patibolo. Lei che era scappata. Torniamo indietro: “Ti voglio così bene che se fossi stata in forze ti avrei regalato la
mia vita, non posso che regalarti la mia povera morte”. Cosa avete capito?
Lei, Suor Bianca, che non era coraggiosa, ha avuto il dono del coraggio dalla
priora! Quest’ultima è morta in modo disperato: “Ti do il modo in cui morirei”.
Questa
visione del frammento che suggerisce il modo integro con cui prendere il senso
globale dei Dialoghi, è la stessa strategia che dobbiamo utilizzare di fronte a
ciò che noi consideriamo rifiuto, perché disdicevole. Ma non è disdicevole. La
priora si è caricata di quella che sarebbe stata la tragedia dell’ultima.
Quello che noi pensiamo essere distorto dobbiamo leggerlo in un’ottica
intuitiva; il maestro della Parola, il poeta di tutti i poeti è quello che in
un’unica Parola dice tutto: “Il Verbo Eterno
del Padre”. Qui c’è tutto. Allora il tutto appare come cosmo: vai a caccia
di qualsiasi aspetto, anche quelli non evidentemente belli, perché sei capace
di vederli come reliquie. “Nulla vada
perduto. Dei pezzi avanzati portarono via 7 sporte piene”. Capite? Tutto è
conservato, non si butta via niente.
Questa
è la via della sofferenza: accettarsi nella passività di essere catturati,
prima ancora di essere i promotori della cattura del divino; è lui che ci
cattura e trascina, anche nell’ultimo gesto. Avete sentito l’introduzione alla serata
prima? Lo Stabat Mater di Jacopone da
Todi. È una forma melismatica, un po’ partenopea, a cappella. Come finisce lo
Stabat Mater? “Quando corpus morietur fac
ut animae donetur paradisi gloria”. Allora? La “a” di “gloria” è sospirata:
“aaaah”. Ha esalato l’ultimo respiro.
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